La donazione è istituto di cui certamente molto si sente parlare con riferimento ad una precisa modalità di trasferimento di beni, mobili o immobili, da parte dei genitori in favore dei figli oppure da parte di un coniuge o compagno i favore dell’altro. Non che questi siano gli unici caso in cui è possibile ricorrere alla donazione, ma diciamo che attesa la gratuità assoluta della cessione del bene oggetto della stessa e lo spirito di assoluta liberalità che deve contraddistinguere le intenzioni del donante, che deve essere privo di qualsiasi altro fine o scopo se non quello di donare, è oggettivamente poco frequente che si ricorra alla donazione al di fuori della cerchia di affetti più stretti.
L’attenzione alla sfera emotiva è quindi fondamentale nella donazione.
Lo conferma il fatto che tra le cause di revocabilità della donazione ve n’è una di cui non solo in molti non conoscono l’esistenza, ma anche di cui in pochi, persino tra gli operatori di settore, vedono in concreto l’applicazione (o quanto meno non di frequente).
Si tratta dell’art. 801 c.c. che prevede che la donazione possa sempre essere revocata dal donante in ipotesi di ingratitudine da parte del donatario.
Ma che significa esattamente “ingratitudine”? O meglio, posto che è da escludersi che per gratitudine debba intendersi un reiterato ringraziamento, oppure che il donante si aspetti qualcosa in cambio che, se mancante, qualifichi il donatario come ingrato- anche perché ciò sarebbe incompatibile con l’animus donandi, ossia lo spirito di liberalità - , quali comportamenti sono tali da essere considerati segnali di ingratitudine rilevante ai fini della revoca della donazione?
E’ tornata ad occuparsene la Cassazione con la recente ordinanza n. 13544 del 29/04/2022, chiarendo innanzitutto che l’ingiuria grave citata tra le ipotesi legittimanti la richiesta di revoca per ingratitudine ai sensi dell’art. 801 c.c.c. si estrinseca una “manifestazione esterna, continua e durevole di un sentimento di forte opposizione”, certamente qualificabili come una grave ingiuria, tali, cioè, da “non poter essere tollerati secondo un sentire ed una valutazione di normalità”.
Ciò che rileva è pertanto l’esternalizzazione di manifestazioni reiterate di avversione e disistima del donatario verso il donante contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l'atteggiamento, a prescindere, peraltro, dalla legittimità del comportamento del donatario” (Cass. n. 20722/2018; Cass. n. 22013/2016) e la cui portata deve essere tale da essere percepita come tale a livello di coscienza collettiva.
Non basta quindi una manifestazione di ostilità o irriconoscenza sporadica, dettata da un momento contingente e/o condivisa con pochi eletti, ma occorre una vera e propria presa di posizione netta e consapevole, che recida, sostanzialmente, e rinneghi anche verso terzi il legame in forza del quale il donante ha donato.